…”Curvo sul banco, adesso tagliava lo zinco a regola d’arte. Aveva tracciato, con un giro di compasso, una curva, e ne staccava un grosso ventaglio con un paio di forbicione ricurve; poi leggermente, col martello, piegava questo ventaglio e gli dava la forma di fungo a punta. Zidoro si era rimesso a soffiare sulla brace del caldano.”… (Cap IV, pag 130).
...”Le pareva di fare una cosa molto ardita, di gettarsi proprio dentro una macchina in movimento, mentre i martelli del fabbro e le pialle del falegname battevano e stridevano in fondo alle botteghe del piano terreno.”… (Cap V, pag142).
…”Il suo primo sguardo, però andava alla “macchina”, un fornello di ghisa dove si potevano scaldare dieci ferri in una volta, accomodati attorno al fuoco su lastre inclinate.”… (Cap V,pag 147).
…”Gervasia, però prima di rientrare, dava sempre un occhiata, là di fronte, a un gran muro bianco senza finestre, tagliato da un gran portone per carri, dal quale si poteva scorgere il fiammeggiare di una fucina, in un cortile ingombro di carri e di carrette con le stanghe all’aria.”… (Cap V, pag 151).
…”In un pomeriggio di giugno, un sabato, che il lavoro era urgente, Gervasia aveva caricato la macchina di carbone e intorno vi si scaldavano dieci ferri mentre il tubo russava.”… (Cap V, pag 153).
…” Quella loschetta di Agostina, che si divertiva a buttar palettate di carbone nella “macchina”, l’aveva caricata al punto che le lastre di ghisa si arroventavano.”… (Cap V, pag158).
…”Clemenza staccava un ferro dalla “macchina” con la presa di cuoio guarnita di lamiera e se l’avvicinava alla gota, per assicurarsi del suo grado di calore. Lo stropicciò sulla sua pianella, lo nettò a un canovaccio che si teneva legato alla vita e cominciò la trentacinquesima camicia, stirando prima lo sprone e le due maniche.”… (Cap V, pag 161).
…”E ogni tanto in mezzo al rumore dei ferri e dell’attizzatoio che grattava la stufa, si sentiva il russare di Coupeau, che, con la precisione di un grosso tic tac d’orologio, regolava il gran da fare della bottega.”… (Cap V, pag 165).
…”A volte le lavoranti stiravano fino alle tre del mattino. Un lume pendeva dal soffitto, appeso a un filo di ferro; la ventola formava un gran cerchio di luce viva nella quale la biancheria assumeva il molle candore della neve.”… (Cap V, pag 167).
…”Allora egli era sopraffatto dal gran calore della stufa, dall’odore della biancheria che fumava sotto il ferro, e sprofondava in un leggero stordimento, col pensiero più lento, con gli occhi dietro a quelle donne che si affrettavano, agitando le braccia nude, passando la notte a vestire a festa il quartiere.”… (CapV, pag 167).
…”Goujet, vedendo Gervasia impensierita per Stefano, per sottrarre il ragazzo alle pedate nel sedere che gli aggiustava Coupeau, l’aveva preso a stirare il mantice nella sua fabbrica di bulloni. Quel mestiere se non aveva in sé nulla di attraente per via del sudicio della fucina e per lo stordimento che si provava a battere sempre su quei pezzi di ferro, era però un mestiere buono, dove si guadagnavano da dieci ai dodici franchi al giorno. Il ragazzo , allora di dodici anni , avrebbe potuto mettercisi , gli andava. E così Stefano era diventato un nuovo legame tra la stiratrice e il fabbro.”… (Cap V, pag 168).
…”poi correvano dal magnano, dove aggraffiavano chiodi e limatura di ferro e filavano via per andare a finire in mezzo ai trucioli del falegname, mucchi di trucioli ch’erano un piacere, dove si ravvoltolavano mostrando il sedere.”… (Cap V, pag 169).
…”La donna adesso stava davanti al fornello, intenta a ripulire un pezzo di catena in una casseruolina di rame dal manico lungo, piena di soluzione d’acido nitrico. Faceva sempre in modo da voltare le spalle a Gervasia, come se fosse a cento leghe di distanza. E Gervasia continuava a parlare, mentre li guardava ostinati al lavoro, in mezzo alla polvere nera del laboratorio, con il corpo sgraziato dentro vesti rattoppate e unte che il loro lavoro gretto e meccanico aveva reso duri e coriacei come vecchi arnesi.”… (Cap V, pag 173).
…”Il vicino Vigoureux, che doveva aver la moglie con i fianchi bluastri tanto gli uomini la pizzicottavano, le portava il coke al prezzo della Compagnia del Gas.”… (Cap V, pag 175).
…”La fabbrica di chiodi e di viti doveva trovarsi lì poco lontano, proprio in quel pezzo di rue Mercadet.”… (Cap VI, pag 177).
…”E cercava di orientarsi in mezzo al frastuono delle officine: sottili tubi sui tetti mandavano fuori forti sbuffi di vapore; una segheria meccanica produceva uno stridio regolare, simile a quando si lacera di colpo una pezza di calicò: manifatture di bottoni scuotevano il suolo con il vortice e il tic-tac delle loro macchine. Mentre guardava verso Montmarte, indecisa, non sapendo se dovesse proseguire oltre, una ventata portò giù la fuliggine d’un’alta ciminiera e appestò la strada.”… (Cap VI, pag 178).
…”Si vide l’officina chiusa da un tavolato con fori grossolanamente murati e con gli angoli rafforzati da muri di mattone. La polvere di carbone, sollevata, intonacava lo stanzone di una grigia fuliggine.”… (Cap VI, pag 179).
…”Stefano si era di nuovo attaccato al mantice. La fucina fiammeggiava con grandi sprazzi di faville, tanto più che il ragazzo, per mostrare alla mamma le sue capacità, scatenava un soffio enorme, da uragano. Goujet, ritto sorvegliava una sbarra di ferro che si scaldava, attendeva con le tenaglie bianche.”… (Cap VI, pag 180).
…”Quando la sbarra fu bianca, la prese con le tenaglie e sull’incudine, col martello, la tagliò in tante parti uguali, come rompesse tanti pezzettini di vetro, a colpettini. Rimise quindi i pezzi al fuoco, di dove li riprese a uno a uno, per dar loro la forma voluta. Fucinava chiodi esagonali. Infilava i pezzi in una chiodaia, appiattiva le sei facce, gettava a terra i chiodi ancora roventi, la cui macchia viva si andava spegnendo sul suolo nero.”… (Cap VI, pag 180).
…”Il cicchetto di poco prima gli scaldava la carcassa come una caldaia; si sentiva una forza dannosa di macchina a vapore.”… (Cap VI, pag 184).
…”Il vasto stanzone, scosso dalle macchine, vibrava tutto, e grandi ombre si agitavano, chiazzate di luce rossastra.”… (CapVI, pag 187).
…”Andò avanti, ed ella lo seguì in quell’assordante pandemonio dove sibilavano e ansavano rumori d’ogni sorta in mezzo ai quei fumi popolati di esseri vaghi, di uomini neri affaccendati, di macchine agitanti i loro bracci, che ella non riusciva a distinguere.”… (Cap VI, pag 187).
…”Poi, siccome lei avvertiva sopra la testa la sensazione d’un gran batter d’ali, alzò gli occhi e si fermò a guardare le cinghie di trasmissione, quei lunghi nastri che formavano nel soffitto una gigantesca ragnatela di cui ogni filo si sgomitolava all’infinito; la macchina a vapore era ascosta in un cantuccio, dietro un muricciolo di mattoni; pareva che le cinghie corressero per forza propria, e portassero il moto dal fondo dell’ombra col loro scorrere continuo, regolare, leggero come il volo di un uccello notturno. La Gervasia fu lì per cadere, avendo incespicato in uno dei tubi del ventilatore che si diramava sul terreno battuto, distribuendo il suo frizzante soffio di vento ai fornelli vicino alle macchine. Goujet cominciò col farle vedere quello; sprigionò il vento sopra un fornello; subito dai quattro lati scaturirono quattro fiamme a ventaglio, un collaretto di fuoco smerlettato, abbagliante, appena tinto da una punta di lacca; la luce era così viva, che le lampade degli operai sembravano gocce d’ombra nel sole. Poi alzò la voce per dare qualche spiegazione, e passò alle macchine. Le cesoie meccaniche che sgranocchiavano spranghe di ferro, rompendone un pezzo ad ogni dentata e sputando i pezzi a tergo uno a uno; le macchine da chiodi e da bullette, alte, complicate, che facevano la capocchia con una sola stretta dalla potente vite; le lisciatrici, dal volano di ghisa; un cerchio di ghisa batteva furiosamente l’aria tutte le volte che da ogni pezzo levava via le slabbrature; le foratrici, messe in movimento da donne, che foravano le viti e le madre viti, col tic-tac delle ruote d’acciaio luccicanti sotto l’unto dell’olio. Gervasia poteva così seguire tutte la fasi di lavorazione, dal ferro a spranghe, rizzato accanto al muro, fino ai chiodi e alle viti fatte, che colmavano certi cassoni nei cantucci.”… (Cap VI, pag 187-188).
…” La macchina forgiava chiodi di quaranta millimetri con la disinvoltura di un gigante. E davvero non c’era nulla di più semplice. Il fuochista prendeva il pezzo di ferro nel fornello; il battitore lo metteva nella chioderia, bagnata da un filo d’acqua continuo perché l’acciaio non perdesse la tempra e tutto era fatto: la vite si abbassava, la bulletta saltava in terra, con la capocchia tonda come fatta al tornio. In dodici ore quella macchina maledetta ne fabbricava centinaia di chilogrammi. Goujet non ne aveva in sé ombra di cattiveria, ma in certi momenti avrebbe volentieri preso Fifina per calarla su tutti quegli ingranaggi di ferro, per la stizza di vederli con braccia più robuste delle sue. Ciò gli dava un gran dispiacere anche quando se ne rendeva ragione dicendosi che la carne non può gareggiare col ferro. Un giorno o l’altro la macchina avrebbe ammazzato l’operaio di sicuro.”… (Cap VI, pag 188).
…”Fu un idillio in una fatica da gigante, nel divampare del carbon fossile e negli scotimenti del capannone, che scricchiolava la carcassa nera di fuliggine. Tutto quel ferro schiacciato, ridotto molle come ceralacca, serbava rozzi segni della loro tenerezza.”… (Cap VI, pag 207).